Pubblico la trascrizione del mio intervento presso il corso "Ecologia e Lavoro nell'Antropocene" tenuto all'Università di Bologna dal professor Emanuele Leonardi che ringrazio per la fiducia. Ringrazio anche Jacopo Bergamo per la sua bella lezione sull'ecosocialismo, tenuta dopo il mio intervento.
Ringrazio Emanuele e Jacopo per la fiducia e l’invito. Cercherò nel mio intervento di trovare dei collegamenti tra l’impianto teorico del libro di Jacopo, che reputo fondamentale e indispensabile per l’introduzione in Italia del dibattito ecosocialista, e la mia esperienza di militante sindacale.
La crescente espansione della scala della riproduzione capitalistica basata sul “doppio sfruttamento” del lavoro e delle risorse naturali sta portando al progressivo impoverimento delle condizioni ecosistemiche essenziali alla riproduzione della vita. I primi segnali materiali di questo aggravarsi delle condizioni ambientali a livello globale si sono fatti sentire negli anni '70, con la cosiddetta crisi energetica, favorendo l'approfondimento del dibattito sul modello di sviluppo e sull'ambiente che è seguito nei decenni successivi. Tuttavia, la crisi energetica non è stata la prima volta che gli esseri umani hanno affrontato i limiti ambientali del proprio modo di produzione e riproduzione sociale. Prendiamo come esempio il caso dell'Inghilterra, paese protagonista della Rivoluzione Industriale. L'inquinamento dell'aria e dei fiumi, generato dall'industrializzazione, insieme alla miseria umana di una parte considerevole della classe operaia, ha prodotto una resistenza sociale a questi risultati indesiderabili dello sviluppo capitalistico.
Di conseguenza, sono stati apportati adeguamenti nell’utilizzo delle fonti energetiche, nel trattamento dei rifiuti e nella forma del rapporto tra capitale e lavoro, che hanno migliorato le condizioni ecosistemiche per la riproduzione della vita, a livello locale. È proprio qui che sta la distinzione tra queste conseguenze legate alla produzione industriale capitalistica e il nostro mondo. Viviamo in un'era in cui gli effetti dell'attività umana hanno un impatto globale significativo sul funzionamento degli ecosistemi e sul clima terrestre. In altre parole, ciò che si fa in alcune parti del globo ha un impatto sull'intero pianeta e non è più possibile superare i limiti imposti dall'ambiente con sole soluzioni locali, come lo spostamento delle attività produttive più inquinanti ad altre regioni del pianeta.
Qui si aprirebbe il dibattito se definire o meno l’era in cui viviamo Capitalocene o Antropocene ma lascio la questione ad Emanuele e Jacopo e più in generale ai vostri studi.
Quello che mi interessa sottolineare è come i lavoratori, una volta espropriati dei mezzi di produzione, impararono subito ad affrontare, collettivamente, le sfide della produzione industriale che li subordinava agli imperativi del profitto. Solidamente organizzati attorno ai sindacati, i lavoratori hanno sviluppato lotte per chiedere migliori condizioni di vita materiale nella società industriale. Di particolare interesse sono stati i risultati in termini di condizioni di lavoro, in particolare per quanto riguarda il miglioramento dell'ambiente di lavoro, quello che oggi è noto come la salute e la sicurezza sul lavoro.
La concertazione sociale che prevede la partecipazione dei sindacati è un pilastro della fase espansionistica del capitalismo nota come il “Trentennio glorioso”, durante il quale è stato edificato il moderno Welfare State. Ma già negli anni '70, parallelamente al periodo in cui si cominciò a discutere di un nuovo modello di sviluppo ecosostenibile, il sindacato iniziò a perdere forza di fronte all'avanzata delle politiche e dell'ideologia neoliberiste che prevalsero nei decenni successivi. La già menzionata dimensione globale dei problemi ambientali, in concomitanza con la crescita delle grandi imprese transnazionali e una nuova divisione internazionale del lavoro, ha imposto al movimento sindacale di ampliare il proprio compito sociale di tutela dei lavoratori verso un tema in cui non aveva molta esperienza, ovvero l'ambiente. Ma questo approccio, visto in modo più ampio, alla vita, è una sfida al movimento sindacale che trova la sua legittimazione nella difesa di una politica occupazionale concentrata in una certa regione del mondo e principalmente basata sulla difesa dei posti di lavoro.
La relazione che esiste tra le problematiche del lavoro e le problematiche ambientali è stata attivamente tenuta nascosta dal capitale. Questa iniziativa del capitale mira a ridurre la resistenza alla sua riproduzione allargata basata su una struttura produttiva che sfrutta il lavoro e l'ambiente. La possibilità di tenere insieme lavoro e questione ecologica potrebbe rappresentare una sfida sistemica al modo di produzione capitalistico. Di conseguenza il capitale non ha tardato a mettere il lavoro e l'ambiente in posizioni antagoniste. Basti pensare alle molte vertenze nel nostro paese dove le imprese, con la scusa di garantire posti di lavoro, premono per allentare le norme a tutela dell'ambiente (recentemente la Catalent di Anagni ha bloccato un investimento di 100 milioni di euro per 8 bioreattori per farmaci biologici a causa di mancate autorizzazioni da parte dell’Arpa poiché lo stabilimento sorge in una delle zone più inquinate d’Italia, la Valle del Sacco, e nella zona del sito c’è un problema con l’inquinamento delle falde acquifere). Questa realtà ha posto sindacalisti e ambientalisti in un'apparente contraddizione, molto improduttiva, che, a sua volta, serve bene gli interessi del capitale nel frammentare la resistenza alla sua espansione.
La sempre crescente consapevolezza dei problemi ambientali e la presa di coscienza praticamente inequivocabile del cambiamento climatico causato dall'aumento delle emissioni e degli stock di gas serra pone il movimento sindacale a un bivio: non è più possibile chiudere gli occhi sulla dimensione ecosistemica del modo attuale di produzione e consumo. E, soprattutto, la necessità che questi problemi vengano affrontati a livello globale da istituzioni con una forte articolazione locale. Questo tipo di articolazione differenziata, ma coerente, tra il livello locale e quello globale di una data organizzazione permette di caratterizzarla come un tipo “glocale”. La struttura organizzativa e il modo in cui operano i sindacati, sia a livello locale che globale, li accreditano come organizzazione glocal, il che può costituire un vantaggio per questo attore nell'intervenire in questi processi.
Accade così che l'inserimento della dimensione ambientale nell'agenda sindacale sia complesso, soprattutto quando sono in gioco interessi più immediati dei lavoratori. In che misura i sindacati riescano a tradurre il loro discorso politico sul rispetto per l'ambiente, quando lo fanno, nelle loro azioni pratiche quotidiane è una questione molto impegnativa. E, oltre a ciò, è importante individuare i fili conduttori che facilitano questo avvicinamento dei sindacati alla questione ambientale, nel senso di diffondere possibili percorsi per i sindacati che non hanno ancora sviluppato tale sensibilità. In sintesi, è oggetto di ricerca indagare come il movimento sindacale stia facendo proprie le tematiche ambientali e, in particolare, la sfida del cambiamento climatico globale nelle sue politiche e pratiche quotidiane.
Si può tranquillamente affermare che i sindacati sono nati e si sono affermati come organizzazioni rappresentative degli interessi del proletariato sotto l'egida di un'industria intensiva nell'uso delle risorse naturali, alimentata da combustibili fossili e con alto impatto inquinante. Quando la minaccia ambientale è diventata concreta per quelle società in cui l'industria si è originariamente sviluppata, al fine di migliorare la qualità dell'aria e dell'acqua per queste popolazioni, la strategia iniziale adottata dall'industria è stata quella di distribuire le attività più inquinanti delle attività produttive in altre regioni del pianeta che hanno imposto meno restrizioni a questo tipo di attività. In generale, la strategia di internazionalizzazione della produzione all'interno di una nuova divisione internazionale del lavoro ha cercato di mantenere le attività a maggior valore aggiunto nelle regioni di origine (anche se le modalità con cui avvengono le delocalizzazioni possono variare molto da paese a paese. Per esempio quanto detto è totalmente vero per una nazione come la Germania mentre in Francia e in Italia si è teso delocalizzare l’intero processo produttivo) e, in tal modo, di concentrare i guadagni di tale divisione, attraverso ragioni di scambio, nei paesi leader della Rivoluzione Industriale. Ma nel caso del cambiamento climatico è diverso. Non importa più dove vengono generate le emissioni di gas serra, poiché gli effetti di queste emissioni si faranno sentire in tutto il pianeta. Più che l'ubicazione degli impianti, acquista rilevanza il modello di produzione e consumo, che distribuisce in modo disuguale l'onere e il guadagno tra i paesi. In questo senso, i sindacati hanno esperienza e tradizione nelle controversie distributive, che possono collocarli come un attore importante in questa discussione.
Secondo il riferimento metodologico degli environmental labour studies, partendo dall'analisi di diverse esperienze internazionali di relazioni sindacali con il tema ambientale, le politiche delle organizzazione sindacali dei lavoratori sviluppate a livello internazionale possono essere, quando non negano il cambiamento climatico, caratterizzate principalmente dal perseguimento di strategie riformiste. La critica a questa posizione da parte dei settori sindacali più radicali li porta talvolta a una posizione più progressista, in quello che Rosa Luxemburg chiamerebbe "riformismo rivoluzionario". Queste caratterizzazioni dei tipi di politiche mi hanno ispirato una categorizzazione delle politiche sindacali a seconda degli interessi e dei rapporti di forza stabiliti dai sindacati a livello regionale e globale. Il movimento sindacale può assumere posizioni politiche conservatrici, riformiste o più rivoluzionarie di fronte al cambiamento climatico. Inoltre, dobbiamo tenere ben presente che il movimento ambientalista è abbastanza eterogeneo per quanto riguarda le sue posizioni politiche in relazione al cambiamento climatico e, forse, potrebbe essere segmentato anche in questi termini per quanto riguarda la possibilità di una combinazione di interessi che possa incoraggiare alleanze tra i due attori sociali.
Vale la pena notare che le strutture sindacali più ampie, in linea con gli interessi dei lavoratori, come federazioni, confederazioni, centrali sindacali e organizzazioni internazionali tendono ad avere posizioni più progressiste rispetto alla pratica quotidiana dei sindacati ancorati a livello locale, spinti da una base che richiede posti di lavoro ad ogni costo e incurante delle problematiche ambientali. A questo punto, c'è una questione cara alla reputazione dei sindacati, ovvero il raggiungimento della coerenza del loro discorso con la loro pratica politica. A volte, la mancanza di coerenza incide notevolmente sulle possibilità di alleanze con il movimento ambientalista, che potrebbe costituire un alleato importante nelle lotte sindacali.
I sindacati che propongono politiche conservatrici sono ancora legati, in un modo o nell'altro, alla negazione del cambiamento climatico come fenomeno che possa influenzare la vita di tutti sul pianeta, sottolineando l'incertezza scientifica sul cambiamento climatico. I sindacati che si posizionano in questo modo cercano di privilegiare gli interessi dei propri iscritti, lottando per il lavoro indipendentemente dall'impatto ambientale causato, oppure, in altro modo, si alleano con la strategia aziendale di contenere le resistenze ai propri progetti di investimento. Non di rado i lavoratori sono utilizzati dal capitale per fare pressioni sullo Stato affinché renda più flessibile la legislazione ambientale, che definisce le soglie di inquinamento e il loro costo per le imprese. Spesso le condizioni economiche, occupazionali e di aumento del reddito e dei consumi sono forti argomentazioni affinché il sindacato adotti una tale posizione di fronte a progetti di grandi imprese. I sindacati allineati a questo comportamento preferiscono affrontare le questioni ambientali legate all'ambiente di lavoro: salute e sicurezza dei lavoratori.
Ma molti sindacati stanno investendo nello sviluppo di una posizione alternativa più socialmente favorevole al cambiamento climatico. L'esperienza internazionale rivela che i sindacati migrati verso politiche riformiste hanno iniziato questo lavoro investendo molto nella formazione e nella sensibilizzazione dei loro membri in merito alla questione ambientale, al fine di ottenere, in primo luogo, la legittimità interna delle loro azioni in questo campo. Questa prospettiva è stata facilitata anche dalla più ampia strategia delle organizzazioni internazionali nel campo dello sviluppo sostenibile, ovvero la famosa green economy per contenere le emissioni responsabili del riscaldamento globale.
Per i sostenitori della green economy sono necessari cambiamenti nelle tecnologie dei processi e dei prodotti secondo un nuovo paradigma produttivo che favorisca la riduzione delle emissioni di gas serra, nel rispetto dei limiti ambientali. Ma questa transizione avrà inevitabilmente impatti sui lavoratori al punto che alcuni progetti diventeranno irrealizzabili, aprendo opportunità di business in altri settori. In questo particolare risiede il più grande contributo del movimento sindacale alla questione del cambiamento climatico: la nozione di una transizione giusta. I sindacati chiedono che questa transizione protegga i lavoratori, ad esempio offrendo loro protezione e sicurezza sul lavoro, al fine di garantire la coesione sociale nella transizione verso un'economia a basse emissioni. La transizione giusta comprende anche le condizioni complete affinché il lavoratore, attualmente allocato in un'industria tradizionale, possa accedere a nuove opportunità di lavoro nella green economy, attraverso la riqualificazione della forza lavoro: questi sono i cosiddetti “Green jobs”.
Queste posizioni sono state sviluppate, inserendo letture particolari di Keynes come quella proposta da Minsky o la famosa MMT, nel cosiddetto Green New Deal emerso come una forma di contestazione al mainstream economico a seguito della crisi finanziaria del 2008. Si tratta essenzialmente di un ampio piano di ripresa economica promosso dallo Stato, e per questo richiama nel nome il New Deal americano degli anni ‘30. Esistono diversi elementi di convergenza tra il New Deal e il Green New Deal, come la preoccupazione per il recupero dell'occupazione e del reddito, supera un modello di politica industriale orizzontale che rinuncia all’intervento diretto dello Stato favorendo solamente tutta una serie di incentivi (come vantaggi fiscali o finanziamenti diretti) per realizzare investimenti e introdurre innovazioni tecnologiche e organizzative nelle imprese; il contesto economico critico in cui sono emerse tali proposte e la crescente contestazione dell'agenda economica neoclassica. C'è però un'importante novità rispetto al passato: la consapevolezza che la ripresa dell'economia deve avvenire attraverso investimenti con responsabilità ambientali e sociali, con particolare attenzione alla mitigazione e all’adattamento ai cambiamenti climatici. In questo senso, il Green New Deal cerca non solo di recuperare la crescita economica ma anche di rifondare le basi su cui si costruisce questa crescita.
Le proposte iniziali per un Green New Deal miravano a soluzioni sinergiche alla crisi finanziaria del 2008, al massimo storico dei prezzi del petrolio e alla crisi climatica. Questi elementi hanno delineato concretamente le proposte di azione anticiclica dello Stato, attraverso un pacchetto fiscale per stimolare l'economia con investimenti green finalizzati alla transizione energetica e alla costruzione di un'infrastruttura resiliente e low carbon. Tali proposte hanno inoltre individuato la necessità di un'ampia riforma finanziaria in grado di ridurre i rischi di crisi sistemiche del settore e di far leva sulla finanza verde. Inoltre, hanno sottolineato l'importanza della riforma fiscale per internalizzare i costi sociali dei combustibili fossili, con particolare attenzione alla tassazione del carbonio, che contribuisce sia a ridurre gli incentivi per i combustibili fossili sia ad aumentare le risorse per lo Stato per finanziare investimenti strategici nel GND
Successivamente, le proposte del Green New Deal hanno iniziato ad abbracciare politiche di assistenza sociale, che includono l'implementazione di programmi di formazione del lavoro per nuovi “Green jobs", oltre a sostenere la quota della forza lavoro nei settori ad alta intensità di carbonio le cui occupazioni rischiano di essere perse durante la transizione verso un'economia a basse emissioni di carbonio. Si possono citare anche le proposte per ampliare la copertura del sistema sanitario pubblico, in particolare per la cura della popolazione più vulnerabile ai cambiamenti climatici.
L'inclusione delle politiche di assistenza sociale nell'ambito del GND è giustificata perché il cambiamento climatico tende ad aumentare le condizioni di povertà, disuguaglianza e vulnerabilità dei più poveri e perché la crescita guidata dalla spesa per i servizi pubblici è spesso immateriale e a basse di emissioni di carbonio. In questo senso, se lo scopo della crescita economica è aumentare il benessere, la spesa per le politiche sociali deve essere efficace e relativamente pulita.
Nel GND, oltre alle funzioni regolatrici e stabilizzatrici dell'attività economica, lo Stato svolge anche quelle di investitore, protettore sociale e fornitore di servizi. Il disaccoppiamento della crescita economica dal consumo di risorse naturali e dalle emissioni inquinanti dipende dall'integrazione delle nuove tecnologie nella produzione. Le innovazioni più radicali degli ultimi decenni sono in gran parte il risultato degli sforzi pubblici nella ricerca e sviluppo (R&S) di base e applicata, nella mobilitazione delle risorse e nell'articolazione tra università e centri di ricerca pubblici e imprese private. La ricerca e lo sviluppo è un'attività circondata da incertezze su quando e se la tecnologia generata prospererà, nella fase di mercato, per generare innovazione.
Infine, è importante notare che le proposte del Green New Deal partono dalla consapevolezza che il libero mercato non guiderà spontaneamente l'economia verso la sostenibilità, combinando la prospettiva macroeconomica keynesiana con elementi di economia ambientale. Lo Stato svolge un ruolo attivo nella decarbonizzazione e negli altri obiettivi socio-ambientali attraverso le politiche economiche e la modifica dell'apparato istituzionale, plasmando così la traiettoria di crescita economica e segnalando al settore privato la strada da seguire. Come sottolinea Keynes: “La cosa importante per il governo non è fare ciò che gli individui fanno già, e farlo un po' meglio o un po' peggio, ma fare ciò che presentemente non si fa del tutto”.
Il GND si differenzia dal keynesismo convenzionale sottolineando che gli stimoli all’economia dovrebbero essere circoscritti a settori strategici a basso impatto ambientale e ad alta inclusione sociale. Gli investimenti “verdi” sono responsabili di stimolare l'attuale attività economica e di determinare come sarà la produzione “pulita” nel prossimo futuro. Allo stesso modo, gli investimenti in industrie inquinanti, in particolare in asset associati ai combustibili fossili, possono ritardare la transizione verso un'economia a basse emissioni di carbonio.
Il confronto più energico con la questione ambientale e le strutture sociali che la sostengono è svolto dai rari sindacati che si imbarcano nel campo di politiche ambientaliste più progressiste o rivoluzionarie. Basandosi sul discorso ambientale più radicale, che rivendica la “giustizia climatica” e non vede nella green economy la soluzione al cambiamento climatico, molti sindacati hanno adottato questa posizione, che si dimostra socialmente più coerente per quanto internamente più complicata da difendere per i sindacati, visti gli interessi più immediati della sua base di sostegno operaia. C'è una grande eterogeneità di posizioni politiche in questo campo, da chi difende l'ecosocialismo, con l'appropriazione statale delle industrie come mezzo per garantire una transizione equa per i lavoratori, a chi difende altre forme collettive di controllo della produzione come l'economia solidale e il cooperativismo. Mi interessa la prima prospettiva perché collegata al libro di cui discuteremo oggi e potenzialmente più problematica da difendere per un sindacato.
Supportati dal lavoro di Marx, alcuni analisti possono giungere alla conclusione che la difesa dell'agente sociale operaio, che esiste solo come parte strutturante del modo di produzione capitalistico, attuata da rappresentanti ufficiali, possa essere intesa come un rafforzamento di quest’ultimo. Se concepiamo che questa struttura produttiva è il principale intensificatore della crisi ambientale, in parte, il rafforzamento del ruolo del lavoratore, soprattutto con l'obiettivo di migliorare la qualità della vita attraverso il raggiungimento di un livello di consumo americano, ha un notevole impatto ambientale. Quindi, per risolvere la crisi ambientale sarebbe necessaria solo la soppressione della società di classe, così come tutto questo modo di produzione. Ho trovato utile su questo tema leggere Michael Lowy, uno degli autori ecosocialisti più importanti. Per lui la teoria marxista è fortemente naturalistica, cioè l'essere umano è un essere naturale, inseparabile dalla natura.
Quindi, la fonte della ricchezza viene da entrambi: l'essere umano produce il valore di scambio, mentre la natura, il valore d'uso. In questo modo, anche nelle opere marxiane, non è da escludere che la dipendenza umana dalla natura debba essere considerata come sfondo per l'analisi dell'azione politica dei gruppi sociali. A mio avviso, i lavoratori, in quanto classe subordinata del capitale, sono portati all'esclusione sociale, in termini di accesso a una serie di servizi pubblici e naturali, essendo inclusi nel gruppo dei danneggiati dal degrado ambientale. Pertanto, i movimenti sindacali, in quanto legittimi rappresentanti dei lavoratori, hanno spazio per agire.
Quello cui verso occorre muoversi è da un lato studiare le esperienze concrete di convergenza tra sindacati e movimenti ambientalisti nel mondo e dall’altro sperimentare la validità delle tesi espresse in questo libro andando a svolgere un lavoro di inchiesta sul campo delle lotte che coinvolgono lavoro e ambiente in Italia.