
Il fenomeno dello
“sciopero selvaggio” va inquadrato nella fase finale di un prolungato periodo di
crescita industriale che Eric Hobsbawm ha descritto come l'età dell’oro del
capitalismo del dopoguerra e che, nell'ambiente accademico, è stato chiamato
“Il trentennio glorioso". Una sua fondamentale caratteristica è il luogo
di origine di questo conflitto: la grande industria, in particolare, quella dell'automobile. Si trattava di scioperi spontanei, che chiedevano un aumento
salariale o si opponevano alle condizioni di lavoro della fabbrica fordista e
si svolgevano all'interno del luogo di lavoro con modalità particolarmente dure
e organizzate al di fuori del controllo sindacale. Questa tipologia di scioperi
sono stati eccezionalmente intensi, i più forti del XX secolo, sia in termini di
numero di ore di lavoro perse che di numero di paesi interessati. Infine, la
composizione di classe del proletariato industriale ci mostra che la punta di
diamante di questi conflitti erano quei lavoratori privi di qualifiche
professionali, per lo più giovani e immigrati di prima generazione, con poca o
nessuna partecipazione sindacale negli anni precedenti. Gli obiettivi che
questi lavoratori si erano prefissati erano simili in tutti i paesi in cui si
verificò questo tipo di conflitto: in primo luogo, un aumento dei salari e una
riduzione dell'orario di lavoro, seguito da un ampio spettro di richieste,
tendenti a ridurre le differenze tra lavoratori qualificati e non qualificati.
In secondo luogo, si teneva conto di tutti gli aspetti del lavoro: dalle pause
alle sanzioni disciplinari, passando per le misure contro gli infortuni sul
lavoro e la qualità del servizio in mensa. Questi scioperi erano generalmente
descritti come "selvaggi", poiché erano organizzati al di fuori dell’organizzazione
sindacale e avevano lo scopo di causare il massimo danno possibile alla
produzione. Nel 1948 uno dei massimi rappresentanti del comunismo consiliarista,
l'olandese Anton Pannekoek, spiegò l'importanza e la natura di questo tipo di
pratica:
"The growth and development of capitalism in the 20th
century has brought about numbers of new social phenomena and economic conditions.
Every socialist who stands for uncompromising class fight, has to study these
changes attentively, because it is on them that depends how the workers have to
act to win victory and freedom; many old conceptions of revolution can now take
more distinct shape. This development increased the power of capital
enormously, gave to small groups of monopolists dominance over the entire
bourgeoisie, and tied State power ever faster to big business. It strengthened
in this class the instincts of suppression, manifest in the increase of
reactionary and fascist trends. It made the trade unions ever more powerless
over against capital, less inclined to fight; their leaders ever more became
mediators and even agents of capital, whose job it is to impose the unsatisfactory
capital-dictated working conditions upon the unwilling workers. The strikes
ever more take the form of wild strikes, breaking out against the will of the
union leaders, who then, by seizing the leadership, as soon as possible quell
the fight. Whereas in the field of politics all is collaboration and harmony of
the classes — in the case of the C. P. accompanied by a semblance of
revolutionary talk, such wild strikes become ever more the only real bitter
class-fight of the workers against capital.
After the war these tendencies are intensified.
Reconstruction, reparation of the devastation or shortness of productive
forces, means capitalist reconstruction. Capitalist reconstruction implies more
rapid accumulation of capital, more strenuous increase of profits, depression
of the standard of life of the workers. State power acquires now an important
function in organizing business life. In the devastated Europe it takes the
supreme lead; its officials become the directors of a planned economy, regulating
production and consumption. Its special function is to keep the workers down,
and stifle all discontent by physical or spiritual means. In America, where it
is subjected to big business, this is its chief function. The workers have now
over against them the united front of State power and capitalist class, which
usually is joined by union leaders and party leaders, who aspire to sit in
conference with the managers and bosses and having a vote in fixing wages and
working conditions. And, by this capitalist mechanism of increasing prices, the
standard of life of the workers goes rapidly downward.
In Europe, in England, Belgium, France, Holland — and in
America too, we see wild strikes flaring up, as yet in small groups, without
clear consciousness of their social role and without further aims, but showing
a splendid spirit of solidarity. They defy their “Labor” government in England,
and are hostile to the Communist Party in government, in France and Belgium.
The workers begin to feel that State power is now their most important enemy;
their strikes are directed against this power as well as against the capitalist
masters. Strikes become a political factor; and when strikes break out of such
extent that they lay flat entire branches and shake social production to its
core, they become first-rate political factors. The strikers themselves may not
be aware of it -- neither are most socialists-- they may have no intention to
be revolutionary, but they are. And gradually consciousness will come up of
what they are doing intuitively, out of necessity; and it will make the actions
more direct and more efficient.”
Dallo sviluppo
economico degli anni precedenti è scaturito lo scoppio delle tensioni che hanno
coinvolto direttamente la fabbrica, i sindacati e la classe operaia. Ha creato
nuove relazioni di potere tra lavoratori industriali e padroni. La richiesta di
aumentare massicciamente la produzione automobilistica, in risposta alla
domanda del mercato, ha portato ad una forte intensificazione dei ritmi di
lavoro e, di conseguenza, ad un netto peggioramento delle condizioni in fabbrica.
Le testimonianze dei lavoratori su questo periodo sono assolutamente coerenti
nel descrivere le officine e gli impianti come un "vero inferno",
dominato da rumore, condizioni malsane, stanchezza fisica e mentale,
l'autoritarismo dei padroni, tra le altre cose. Analizzato come fenomeno
globale, in cosa consistevano questi "scioperi selvaggi"? O, in altre
parole, quali erano le pratiche che i lavoratori dell'industria attuavano nel
contesto del conflitto tra capitale e lavoro? Partendo dall'analisi sull'origine
dei danni arrecati al processo produttivo, si distinguono le seguenti tipologie
di pratiche operaie applicate:
Interruzione
della produzione: che
i lavoratori cercassero, interrompendo il lavoro, di interrompere la
produzione, è ovvio. Ma osserviamo varie tattiche per perseguire questo
obiettivo. Prima tattica: lo sciopero illimitato di tutta la fabbrica. Ciò
disorganizzava il processo di produzione in quanto il danno viene potratto nel
tempo, poiché la maggior parte delle volte la sua dichiarazione era senza
preavviso, e poiché il sostegno di picchetti esterni era un
fenomeno comune (cioè al di fuori del complesso della fabbrica) assieme alla
confisca degli strumenti di lavoro e all’occupazione dei luoghi di lavoro.
Seconda tattica: lo sciopero parziale. Si trattava di arresti per sezione e / o
reparto ripetuti ad intervalli regolari da una o tutte le categorie di
lavoratori (sciopero a singhiozzo). In Francia e in Italia veniva utilizzato un
altro tipo di sciopero parziale chiamato grève tournante (sciopero a scacchiera
in italiano), che consisteva nello spostare l'interruzione del lavoro da un
reparto all'altro.
Rallentamento
della produzione: non
comporta un arresto della produzione che viene ridotta dagli operai in una
proporzione più o meno importante. Tra le pratiche operaie di rallentamento
della produzione si possono segnalare l'azione diretta della riduzione
dell'orario di lavoro, assenteismo e lavoro "riluttante". Utilizzando
una qualsiasi di queste pratiche, la riduzione della produzione è il risultato
di un rallentamento del lavoro per un tempo più o meno prolungato. Pertanto,
queste azioni hanno assunto più forme. Ad esempio, rallentando la produzione si
impediva all’Ufficio Tempi e Metodi di fissare standard di produzione. Molte
volte i lavoratori hanno rifiutato i tempi. Come si vede, questa pratica si è
manifestata attraverso le pressioni esercitate sul cronometrista, generando
un'inefficienza produttiva perfettamente studiata: gesti e ritmi lenti, azioni
aggiunte per affrontare i problemi di sicurezza e qualità, nonostante gli
imperativi prescritti dall'ufficio metodi. Un'altra forma di azione consisteva
nella decisione del lavoratore di lavorare al suo ritmo “naturale” o di
stabilire un ritmo di lavoro collettivo inferiore a quello richiesto
dall'azienda. Oppure, un’altra pratica consisteva nell'applicazione rigorosa
delle indicazioni prescritte dalla normativa aziendale, la cui rigorosa
osservanza rendeva impossibile il normale svolgimento del ciclo produttivo.
Infine, la
tattica più usata dai metalmeccanici era il lavoro "riluttante",
poiché anche il più semplice dei lavori ripetitivi richiedeva un'iniziativa
minima da parte dell'esecutore. Questa pratica consisteva nel rigetto di ogni
iniziativa non obbligatoria: il lavoratore eseguiva il minimo in ciascuna delle
operazioni prescritte. Quando si verificava un incidente, non si assumeva
alcuna responsabilità, nascondendosi nella scala gerarchica da cui dipendeva.
Pertanto, ha eseguito ma non ha controllato il lavoro finito ed era disinteressato
al corretto funzionamento dei macchinari. Queste pratiche esprimevano una
risposta dei lavoratori adeguata al sistema tecnico della produzione in serie e
alle modalità di remunerazione legate alle prestazioni tipiche dell'ambiente
produttivo. Ma hanno anche significato una forte messa in discussione dei
valori stabiliti dalla società industriale e dal modello di organizzazione
sindacale come struttura rappresentativa e rivendicativa. La paralisi della
produzione può significare una critica implicita dello sviluppo capitalista,
nonché una manifestazione di opposizione alla divisione tecnica e sociale del
lavoro. Il denominatore comune in questi "scioperi selvaggi" era
l'energica sfida al potere del comando capitalista attraverso il rifiuto del lavoro.
Il controllo
esercitato dagli operai dell'industria sulle lotte che conducevano era
sostenuto dalla razionalizzazione tecnica della produzione, che conferiva
importanti poteri di disorganizzazione a certi gruppi di lavoratori.
Tradizionalmente la radicalizzazione operaia si inscriveva in un contesto
caratterizzato da due fenomeni: 1) l'ingresso in scena delle masse escluse e
senza voce; 2) un'economia di sussistenza per la classe operaia. Tuttavia, nel
periodo 1968-1973, il radicalismo è riapparso con l'evoluzione tecnologica e in
un nuovo contesto, vale a dire, con una vigorosa rappresentanza politica della
classe operaia e in un'economia di relativa abbondanza. Sosteniamo la nostra
spiegazione sottolineando che l'evoluzione tecnologica, e parallelamente lo sviluppo
dell'organizzazione industriale fordista, hanno reso le fabbriche più vulnerabili
a questo tipo di sciopero. La crescente complessità dei prodotti, la divisione
del lavoro, la crescente importanza del capitale fisso, il numero crescente di lavoratori
che dovevano continuare a ricevere il loro salario in caso di sciopero
illimitato degli operai. Tutti questi elementi rendevano le fabbriche moderne
estremamente sensibili a qualsiasi disturbo, per quanto minimo.
In definitiva,
gli "scioperi selvaggi" sono stati un fenomeno globale che è stato
influenzato dalla valorizzazione del capitale del dopoguerra e
dall'organizzazione del lavoro in fabbrica. L'inserimento di nuovi strati di
lavoratori nell'industria, la loro marginalità sindacale e il crescente controllo
acquisito dai lavoratori non qualificati sono i fattori che, a vario
titolo, spiegano queste pratiche operaie. Di seguito descriviamo brevemente le
ondate più rappresentative di “scioperi selvaggi” avvenute nel periodo compreso
tra la fine degli anni ’60 e gli anni ‘70 in Francia, Italia e Germania Ovest.
Francia
Dal 1968 al 1971,
i lavoratori delle fabbriche automobilistiche di Renault-Cléon, Renault-Flins,
Mans, Peugeot-Sochaux e Renault-Billancourt scatenarono una serie di scioperi
che rese visibile un'insubordinazione operaia generalizzata. Nei mesi di maggio
e giugno 1968, gli operai di Billancourt occuparono gli stabilimenti del
complesso industriale e denunciarono le condizioni di lavoro, le intimidazioni
della direzione e i tempi imposti alla produzione. D'altra parte, molti
lavoratori denunciavano esplicitamente il sistema di remunerazione legato alla
produttività, che il più delle volte si traduceva in bassi salari. Questa forma
di remunerazione ricadeva sui lavoratori algerini, portoghesi e spagnoli, la
cui situazione mostrava una forte discriminazione nei confronti dei lavoratori
immigrati in termini di condizioni di lavoro e avanzamento sociale. Per questo motivo, la piattaforma di lotta dei lavoratori immigrati esprimeva l’abolizione
dei contratti temporanei, la lotta contro i salari legati alla produttività, la
discriminazione nella promozione sociale e la discriminazione razziale sul
lavoro. Esprimeva il contrasto alle restrizioni dell'esercizio dei diritti sindacali. Infine, si richiedeva l'alfabetizzazione
dei lavoratori immigrati con il sostegno delle istituzioni dello Stato
francese. Queste istanze dei lavoratori hanno in gran parte messo in
discussione l'organizzazione del lavoro e la gestione del lavoro da parte delle
aziende, ma hanno anche messo in luce le carenze rappresentative dei sindacati.
Questioni rimaste ignorate nei negoziati tra l'azienda e le organizzazioni
sindacali (Confédération Française Démocratique du Travail e Confédéderation
Générale du Travail). Nello stesso anno, il 15 maggio, i lavoratori di Cléon
scioperarono, prendendo in ostaggio il direttore della fabbrica e ingaggiando
un lungo conflitto che mise profondamente in discussione l'organizzazione del
lavoro. Il giorno successivo, i lavoratori della Renault di Flins occuparono la
fabbrica. La situazione è diventata esplosiva quando il 6 giugno la polizia ha
cercato di porre fine al loro sciopero con la forza. Ciò ha favorito l'unione
tra studenti, lavoratori e popolazione locale, generando scontri di strada che
superavano la ristretta cornice della fabbrica. Come a Sochaux, l'occupazione
ha contribuito ad alimentare la rivolta dei lavoratori e l'intervento
delle forze dell'ordine ha radicalizzato di più i conflitti.
Dopo le violente
manifestazioni dell'ottobre 1967 e lo sciopero nella primavera del 1968, i
lavoratori non qualificati di Mans
moltiplicarono i conflitti tra il 1969 e il 1971. Nel febbraio e nel marzo 1969
scoppiò uno sciopero parziale nella catena di montaggio perché gli operai rifiutarono il salario legato alla produttività, facendo perdere all'azienda la
produzione di 3.200 veicoli. Nell'ottobre dello stesso anno, nell'officina del
trattamento termico è stato dichiarato uno sciopero per le condizioni
igienico-sanitarie. Infine, il 2 aprile 1971, gli operai non qualificati
dell'officina FF si inserirono in queste lotte contro il
salario legato alla produttività, che ha portato, a partire dal 29 aprile, ad
uno sciopero con l'occupazione dell'intero stabilimento di Mans. Questo
conflitto è stato esteso a Billancourt, i cui lavoratori hanno deciso di
occupare la fabbrica, al fine di evitare una serrata del padrone. Tuttavia, la
CGT ha rifiutato esplicitamente la possibilità di parlare di uno sciopero in
uno qualsiasi di questi casi. Dopo diverse settimane di trattative, il 24
maggio i lavoratori di Mans votarono il ritorno al lavoro mentre a Billancourt
sono tornati per ordine della CGT. Tuttavia, in ogni caso, questo ciclo di
scioperi ha rovinato il prestigio del metodo di remunerazione legata alla
produttività in Francia, e ha realizzato alcune timide riforme nel sistema di
remunerazione e nelle condizioni di lavoro. A questo punto, ci interessa
indicare i lavoratori immigrati come i principali protagonisti di questi scioperi,
dato che hanno disobbedito alle organizzazioni sindacali con le proprie
rivendicazioni. Nonostante il ruolo di mediazione della CGT e della CFDT, gli
operai non qualificati dichiararono la maggior parte degli scioperi selvaggi
del periodo, occupando un posto eminente nel conflitto sociale in Francia, a partire
dal 1968.
Italia
Nel 1968 la FIAT
Mirafiori, con sede a Torino, era la più grande fabbrica automobilistica del
mondo e il cuore operaio e industriale d'Italia. Aveva una superficie di tre
milioni di metri quadrati, 37 cancelli distribuiti su dieci chilometri, 40
chilometri di binari ferroviari interni, 40 linee di montaggio e una
popolazione attiva di oltre 50.000 persone. La maggior parte dei suoi
lavoratori, principalmente quelli direttamente impegnati nella produzione,
erano giovani immigrati del nostro Mezzogiorno. L'immigrazione del secondo
dopoguerra fu uno dei fenomeni più importanti del "miracolo economico
italiano". Tra il 1955 e il 1971 le migrazioni interregionali hanno
interessato più di 9 milioni di persone. Gli immigrati, per la maggior parte,
provenivano dalle regioni arretrate del Sud Italia, ma anche dal Veneto e da
altre aree non industrializzate del nord. La disponibilità di un gran numero di operai per la mobilitazione in fabbrica cominciò ad essere percepibile negli
scioperi avvenuti nel febbraio 1969. Il primo giorno del mese si sono svolte
manifestazioni contro il tentativo della direzione di imporre l'orario di
lavoro il sabato pomeriggio, il 5, contro i licenziamenti effettuati e il 12, per
abolire le zone salariali. Tali proteste, convocate e dirette dai sindacati
italiani (Confederazione Generale Italiana del Lavoro, Confederazione Italiana
Sindacati dei Lavori, Unione Italiana del Lavoro), non hanno avuto esiti
favorevoli a causa dell'intransigenza padronale. Da parte loro, i sindacati
hanno puntato maggiormente sugli aumenti salariali e la possibilità di
partecipare alla gestione del processo produttivo.
A partire da
aprile, i disordini e gli scioperi spontanei hanno assunto un carattere
massiccio e, a maggio, sono esplosi con forza. Quando la Cgil e la Uil tentarono
la negoziazione di un nuovo contratto collettivo, non hanno tenuto conto dei
lavoratori non qualificati e non sindacalizzati, che sono stati erroneamente
considerati i meno bellicosi. Pertanto, i lavoratori non qualificati hanno
rifiutato la leadership sindacale per quanto riguarda gli obiettivi e le forme
di lotta. Su questa base, la Carrozzeria e il famoso Reparto Assemblaggio 54
(le fasi finali del ciclo produttivo) sono stati coinvolti negli scioperi che
hanno assunto forme assolutamente incontrollabili. La maggior parte dei
lavoratori meridionali, assunti di recente, relativamente giovani, privi di una
particolare qualifica professionale e impiegati nelle mansioni più frammentate
e non qualificate, hanno svolto un ruolo importante nella continuità di una
mobilitazione che aveva nuove caratteristiche di lotta. Le richieste dei
lavoratori si concentravano sugli aumenti salariali per tutti, senza
distinzione di categoria.
Le forme di lotta
erano le stesse del 1968, a Billancourt, in Francia: scioperi improvvisi e
articolati, ai quali a Mirafiori si aggiunsero i “cortei interni”, che erano
manifestazioni all'interno della fabbrica. All'inizio, i sindacati
contrastarono le richieste egualitarie, ma la base operaia li ignorava. La
direzione del conflitto è stata assunta da un’organizzazione non ufficiale
chiamata “Assemblea operai e studenti” che ha diffuso le sue linee guida
attraverso il settimanale La Classe, che ha iniziato ad essere pubblicato nel
maggio 1969.
Lo sconvolgimento
nelle officine Carrozzeria e Assemblaggio è proseguito, nei giorni di maggio,
con interruzioni improvvise, scioperi di otto ore, cortei interni e il blocco
quasi totale della produzione. Bloccate anche le autorimesse da cui dovevano
partire i camion carichi di prodotti finiti. Alcuni settori della Meccanica
sono scesi in sciopero, nonostante l'accordo sulle categorie che l'azienda e la
Cgil avevano sottoscritto. Verso la fine di giugno Mirafiori era praticamente
paralizzata e la FIAT non osava mettere in atto le sue minacce. Gli oltre
cinquanta giorni di scioperi spontanei sono costati all'azienda la perdita di
circa 40.000 vetture. Nel corso di questi conflitti la società ha chiesto di
trattare direttamente con gli scioperanti, vista l'inconsistenza della
dirigenza sindacale. Gli accordi firmati a fine giugno hanno riconosciuto un
aumento salariale, ma non hanno fatto alcuna concessione alle istanze
egualitarie degli operai. Tuttavia, pochi giorni dopo, uno sciopero generale
proclamato dai sindacati, a causa del problema degli alloggi, si è concluso con
violenti scontri nei quartieri popolari. Questi eventi hanno avuto come
protagonisti gli stessi soggetti sociali che avevano condotto gli
"scioperi selvaggi" nel maggio-giugno di quell'anno: lavoratori
ordinari e non qualificati, soprattutto giovani e immigrati ben descritti da
Nanni Balestrini nel noto romanzo “Vogliamo tutto”.
Gli scontri del 3
luglio 1969 a Torino, con epicentro in Corso Traiano (il viale da cui si accede
allo stabilimento di Mirafiori), significarono ancora una volta un'esplosione
di violenza operaia che sfuggì completamente al controllo del movimento operaio
istituzionale. Gli incidenti sono avvenuti in uno sciopero generale indetto dai
tre sindacati per chiedere il congelamento degli affitti. L'obiettivo dello
sciopero era riportare l'attenzione su
una dirigenza sindacale che, durante le lotte spontanee della primavera, era
stata completamente ignorata. Tuttavia, l'organo informale che ha coordinato il
precedente ciclo di lotte, l'“Assemblea operai e studenti” ha subito convocato
una manifestazione alle porte di
Mirafiori e ancora una volta ha assunto la guida del movimento. Di fronte
all'intervento delle forze dell'ordine in Corso Traiano, i manifestanti hanno
reagito erigendo barricate e si sono confrontati con le forze dell'ordine fino a tarda notte.
L'atteggiamento violento della polizia, che ha fatto irruzione nelle case con
gas lacrimogeni, ha provocato l'insurrezione degli abitanti del quartiere
adiacente alla fabbrica. Si sono quindi uniti ai manifestanti negli scontri.
Questi eventi e gli scioperi di maggio-giugno alla FIAT hanno prodotto un
enorme effetto politico. Così, la lotta a Mirafiori è diventata finalmente un
evento pubblico. I conflitti e la situazione dei lavoratori immigrati hanno
lasciato la fabbrica e si sono imposti come un elemento importante sulla scena
politica e sindacale.
Da quel momento
partiti, sindacati e istituzioni hanno dovuto tener conto della variabile
dell'autonomia dei lavoratori. Quando il conflitto in fabbrica è ripreso dopo
le vacanze estive, sia l'azienda che i sindacati erano preparati. La FIAT ha
reagito immediatamente ai nuovi “scioperi selvaggi”, aprendo le pratiche di
regolamentazione del lavoro a più di 30.000 lavoratori e inaugurando così l’'“Autunno Caldo”. L'“Autunno Caldo” italiano fu un ciclo di lotte operaie che iniziò
alla fine dell'agosto 1969. Alla FIAT, ripresero gli scioperi spontanei e
articolati che avevano danneggiato la produzione automobilistica a maggio e
giugno dello stesso anno. Questa volta la situazione sembrava più grave perché
l'officina in sciopero era la numero 32. Questa occupava una posizione
nevralgica ed è bastato quindi il suo blocco a paralizzare gran parte della produzione.
Si aprì così con la massima durezza il conflitto per il rinnovo del contratto
dei metalmeccanici, principale settore lavorativo italiano. A questi sono
seguiti i lavoratori del settore chimico e dell'edilizia. I sindacati che, in
primavera, erano stati allontanati dalla guida delle lotte, hanno dimostrato
una notevole capacità di reazione e di adattamento alle richieste dei
lavoratori. Pertanto, intrapresero la strada dell'unità sindacale,
presentando la piattaforma di lotta attraverso consultazioni di base. Inoltre, approvarono alcune delle principali richieste egualitarie, compreso
l'identico aumento salariale per tutti. A loro volta, sostituirono le
screditate commissioni interne con consigli di fabbrica. Il confronto si rafforzò rapidamente . Le ore di sciopero si moltiplicarono e il 19
novembre venne raggiunta una forte tensione con l'omicidio dell'agente
Antonio Annarumma, durante uno scontro tra operai e polizia.
Il 28 di quel
mese, a Roma, manifestarono 100.000 metalmeccanici da tutta Italia, con
l'obiettivo di fare pressione su Confindustria. Il ministro del Lavoro, Carlo
Donat Cattin, democristiano, è intervenuto direttamente nella trattativa, ponendosi
a favore delle richieste sindacali. Per tutto il mese di dicembre le trattative
sono proseguite in un clima condizionato dall'attentato alla Banca Nazionale
dell'Agricoltura a Milano. A fine dicembre la Confindustria, in bilico tra
conflitto sindacale e pressioni governative, siglò un accordo in cui accettò gran parte delle richieste sindacali. Gli effetti di questo anno
esplosivo segnarono l'Italia per l'intero decennio successivo. Nelle
fabbriche, gli accordi firmati alla fine del 1969 non sono riusciti a placare
il conflitto sociale. Infatti, durante la primavera del 1970, gli scioperi
spontanei ripresero e continuarono per tutto il decennio.
Germania Ovest
Nel 1969 e nel
1973 due grandi ondate di scioperi scossero la Repubblica Federale Tedesca. La
prima è stato condotta da minatori e lavoratori della siderurgia. La seconda dagli
operai del settore automobilistico. I lavoratori non qualificati, assegnati ai
lavori più duri, si sono mobilitati senza l'impulso dei sindacati (nel caso dei
minatori, IG Bergbau; nel caso della siderurgia, IG Metall). Gli analisti
consideravano questi scioperi "selvaggi" (Wilde Streiks) o
"spontanei" (Spontane Streiks) . Sono stati etichettati in questo
modo per indicare che i lavoratori si erano spostati al di fuori del sindacato
e del quadro giuridico. Nella Germania Ovest, infatti, secondo il principio
dell'ultima ratio, nessuno sciopero potrebbe essere iniziato senza aver prima
esaurito tutte le possibilità di negoziazione, inoltre, dovrebbe essere
dichiarato solo dal sindacato. Allo stesso modo, nessun conflitto poteva essere
provocato durante la validità di un contratto collettivo o sui punti trattati:
i firmatari si sono impegnati a rispettare il "dovere della pace
sociale" (Friedenspflicht). Attraverso questo complesso sistema
istituzionale, la fabbrica era un luogo "deconflittualizzato ” e ogni
tentativo di lotta frontale contro lo Stato era bloccato a monte. In altre
parole, la normativa vigente ha circoscritto lo sciopero a livello di branca
produttiva, uno spazio politicamente neutro, derivante dalla divisione
dell'economia per attività di settore, per ricercare il consenso come modalità
privilegiata di regolazione di eventuali conflitti.
Ora, nel caso
delle lotte del 1969 e del 1973, lo sciopero è stato proclamato in fabbrica. I
lavoratori si sono gettati nel conflitto sul posto di lavoro, per affrontare
problemi specificamente industriali. Se ci concentriamo sul 1973, quando la
maggior parte delle lotte erano guidate da lavoratori del settore automobilistico,
275.000 lavoratori scioperarono in 335 fabbriche. Spesso questi scioperi non
durarono più di pochi giorni, ma allo stesso tempo si svilupparono, in modo
scaglionato, in quasi tutto il territorio della Germania occidentale e per
tutto l’anno. Ci fu un picco nel mese di agosto, mentre gli scioperi hanno
interessato un centinaio di complessi automobilistici. Questo movimento è stato
così importante che il Cancelliere Willy Brandt ha deciso di incontrare i
rappresentanti dei sindacati e delle associazioni dei datori di lavoro il 24 di
agosto. Nello stesso giorno, circa 70.000 lavoratori, operai non qualificati
della Opel, a Bochum, e della Ford, a Colonia, hanno deciso di interrompere
spontaneamente il lavoro (Spontane Arbeitsniederlegung). Il più grande
contingente tra questi lavoratori automobilistici in conflitto era quello di
nazionalità turca. Karl Heinz Roth ha sostenuto che su un numero totale di
lavoratori in sciopero, i lavoratori turchi hanno raggiunto la cifra di 12.000
operai. L'autore ha sottolineato che questi lavoratori "(...) lavorano
nelle posizioni più difficili nella catena di montaggio, per salari orari del
20% inferiore alla media. Con ritmi quasi il doppio rispetto alla Volkswagen
".
Venerdì 24 agosto
1973, gli operai delle linee di assemblaggio finale dello stabilimento Ford di
Colonia rifiutarono l'aumento dei tassi di lavoro richiesto dall'azienda e si
fermarono. Va notato che il 90% dei lavoratori era di nazionalità turca. Gli
scioperanti hanno rapidamente preso il controllo della fabbrica e organizzato
un'assemblea in cui si sono riunite circa 1 000 persone. In questa assemblea,
le richieste hanno preso forma: ritiro della cassa integrazione, aumenti uguali
per tutti e un rallentamento della velocità della linea. Tutti gli operai del
turno di pomeriggio erano in sciopero, i lavoratori del turno di notte hanno
seguito il loro esempio. Lunedì, l'assemblea ha eletto un comitato dello
sciopero che ha emesso tre risoluzioni: "divieto di bere alcolici durante lo
sciopero, nessuna violenza contro i lavoratori che volevano lavorare, non è
consentita la distruzione di macchine". Allo stesso modo, ha stabilito una
lista di cinque punti delle loro proposte: 1) aumenti uguali per tutti; 2) sei
settimane di ferie retribuite per tutti; 3) revoca della cassa integrazione; 4)
pagamento del salario per i giorni di sciopero; e 5) nessuna sanzione per gli
scioperanti. Se guardiamo agli altri scioperi nel 1973 nella Germania federale,
possiamo vedere che le richieste di aumenti salariali in cifre reali, giorni di
sciopero retribuiti, tassi di produzione inferiori e sanzioni per assenteismo
erano all'ordine del giorno. Questa disponibilità, da parte dei lavoratori non
qualificati, a trovare una soluzione più equa ai problemi della fabbrica è
apparsa in quasi tutti i conflitti. Nello stabilimento Pierburg di Neuss a metà
agosto, i lavoratori hanno chiesto l'abolizione dello scaglionamento salariale
per le categorie meno qualificate e lo Schumutzzulage per tutti.
A luglio, i
lavoratori non qualificati di Hella a Lippstadt chiedevano un "compenso
per il costo della vita" (Teuerungszulage) per tutti, mentre la direzione
aveva offerto solo ai tecnici un aumento salariale. A Mannheim , i lavoratori della
John Deere hanno interrotto il lavoro durante il mese di maggio chiedendo
promozioni e rallentamento del lavoro sulle linee. In questo caso, possiamo
osservare l'esistenza di una giustapposizione di particolari conflitti, in cui
i lavoratori hanno assunto e rivendicato le loro richieste, sulla base della
discussione dei problemi specifici della fabbrica: i ritmi di produzione, i
sistemi di pagamento e le licenze, tra le altre richiesta. Paradossalmente,
furono proprio le specificità della questione fabbrica a dare una certa
omogeneità agli scioperi del 1973. Ma la cosa più importante da segnalare è che
gli operai trovarono nella fabbrica il possibile luogo di conflitti reali, al
di là delle considerazioni tattiche dei sindacati e le caratteristiche formali
degli "scioperi legali". In altre parole, in base alle loro
particolari esigenze, i lavoratori non qualificati hanno adottato forme di
organizzazione e altre visioni dello sciopero che includevano figure sociali e modalità
politicamente superiori a quelle degli “scioperi legali”. Questi erano
caratterizzati dal monopolio della rappresentanza e dallo stretto controllo del
conflitto da parte dei sindacati e dei comitati aziendali. Le forme organizzative
adottate, come le assemblee dei lavoratori e i comitati di sciopero, hanno
comportato la comparsa di figure e pratiche autonome dei lavoratori che
sfidavano l'autorità del sindacato. Pertanto, come nei precedenti esempi
nazionali, al conflitto “classico” tra lavoratori e azienda si è sovrapposta la
lotta tra lavoratori e sindacato. In questo conflitto contrapposto, i consigli di fabbrica e il sindacato hanno svolto un ruolo di garanti dell'ordine stabilito
e hanno agito contro gli scioperanti ponendosi dalla parte della direzione e
delle forze di polizia.
Nel caso della
Ford a Colonia, i delegati sindacali hanno stigmatizzato lo sciopero come uno
"sciopero turco" (Türkenstreik bei Ford) e hanno mobilitato i
lavoratori tedeschi per il ritorno al lavoro, proponendo così di frammentare i
lavoratori secondo la linea divisoria tedeschi / immigrati. Nel frattempo, gli
operai che occupavano la fabbrica hanno riconosciuto il comitato di sciopero
come unico rappresentante e hanno rifiutato il ritorno al lavoro, come proposto
dalla IG Metall e dal consiglio di fabbrica. La polizia ha chiuso il recinto
esterno al complesso e la direzione dell'azienda non ha accettato altro che
l'abbandono dello stabilimento, al fine di riprendere il controllo del
territorio della fabbrica. Il 29 agosto è stata organizzata una
contro-manifestazione di 300-400 persone della direzione, del sindacato e del
consiglio di fabbrica e si sono recati ai cancelli del complesso industriale.
Era composto da capisquadra, delegati di fabbrica, guardie giurate e operai
specializzati di nazionalità tedesca. Sui loro striscioni trovava spazio lo slogan
"Vogliamo lavorare". Quando è iniziata la lotta tra scioperanti e
contro-manifestanti, la polizia è intervenuta e ha arrestato gli
"istigatori", cioè i membri del comitato di sciopero. Al momento
dell'assalto, le forze dell'ordine si sono rivolte agli scioperanti in lingua
turca e hanno ordinato loro di lasciare immediatamente la fabbrica, pena
l'espulsione dal paese senza preavviso. Molti occupanti di nazionalità turca
hanno preso sul serio la minaccia ed hanno abbandonato la lotta.
Il giorno dopo
sono tornati al lavoro. Alcuni lavoratori in sciopero hanno urlato contro di
loro e fischiato contro i lavoratori che stavano riprendendo il loro lavoro.
Tuttavia, il servizio d’ordine dei lavoratori (Arbeiterschutzstreifen) stava tenendo sotto controllo lo stabilimento, disperdendo qualsiasi possibile
tumulto. Da parte sua, il consiglio di fabbrica ha reso noti i risultati dei
negoziati. Si trattava di un bonus una tantum di 280 marchi, il pagamento dei
giorni di sciopero (ad eccezione degli "istigatori" del conflitto) e
la revisione dei licenziamenti caso per caso. Nelle due settimane successive,
l'azienda ha compiuto una vera e propria "pulizia". Così, i servizi d‘ordine
del sindacato hanno denunciato i lavoratori attivi durante lo sciopero. Di
conseguenza, più di 100 lavoratori, per lo più turchi, sono stati licenziati
senza preavviso, mentre 600 hanno accettato di “dimettersi”. Nonostante la
legislazione di cogestione gli desse i mezzi per respingere queste misure, il
sindacato e il consiglio di fabbrica non hanno fatto nulla per impedirle. Al
contrario, hanno sostenuto la direzione in questa politica, al fine di
eliminare coloro che avevano sfidato il loro potere. In conseguenza degli
"scioperi selvaggi" del 1973, in generale, e di quello della Ford a
Colonia, in particolare, l'apparato sindacale e lo Stato hanno sostenuto alcune
rivendicazioni sviluppate e sostenute da lavoratori non qualificati,
riformulandole e reintegrandole nel quadro giuridico e istituzionale
(contrattazione collettiva di settore), nell'interesse della preservazione della
“pace sociale”. Nel 1974 lo Stato ha avviato un programma dal titolo Humanisierung
der Arbeit, in cui sindacati, dirigenti d'azienda e accademici si sono
impegnati in un processo di riflessione, finalizzato allo studio delle
innovazioni tecniche e organizzative per migliorare le condizioni di vita e
lavoro degli operai. La cosiddetta "umanizzazione del lavoro" è stato
un successo politico che ha permesso il ripristino dell'ordine istituzionale
nei rapporti di lavoro, ha favorito la "pace sociale" e la stabilità in
fabbrica. Questo tipo di relazioni industriali hanno dato alla Germania il
potere di affrontare la sfida dell’unificazione negli anni '90.
Attraverso gli
esempi nazionali che citiamo, possiamo identificare alcuni elementi comuni (il
tipo di comportamento dei lavoratori non qualificati nei conflitti, la natura
radicale delle rivendicazioni egualitarie, il ripetersi di episodi di violenza
durante scioperi e manifestazioni, l'autonomia organizzativa delle base operaia
a scapito delle organizzazioni sindacali...) che configuravano una cultura che
interpretava questi comportamenti dei lavoratori come una manifestazione ostile
del moderno lavoratore industriale nei confronti della fabbrica, delle
macchine, della società capitalista modellata nel suo complesso sulla base del
lavoro salariato. Allo stesso tempo, questa cultura aveva la capacità di
estendere e generalizzare il conflitto sociale, a partire dai bisogni immediati
del proletariato in totale opposizione ai padroni, allo Stato e alle
istituzioni (considerando come tali sia i sindacati che i partiti politici),
poiché ognuno di essi aveva un ruolo nella moderazione del conflitto sociale.
Bilbiografia
Giacchetti D., L'autunno caldo, Ediesse, 2013
Pantaloni A., 1969. L’assemblea operai studenti. Una storia dell'autunno caldo, DeriveApprodi, 2020
Roth K.H, L altro movimento operaio storia della repressione capitalistica in Germania dal 1880 a oggi, "Materiali Marxisti", Feltrinelli, 1976
Trentin B., Da sfruttati a produttori. Lotte operaie e sviluppo capitalistico, dal miracolo economico alla crisi, De Donato, 1977